La cucina e la buona tavola si fondano su una necessaria disposizione all’apertura, a mescolare seguendo l’istinto le infinite combinazioni che abbiamo a disposizione con un’incessante e gioiosa sperimentazione.
E cosa c’è di più gioioso di sperimentare i colori?
Il rosso che degrada in tutte le sfumature del sole, il blu intenso di un mare in una giornata estiva che brucia, il marrone e il verde che cambia la sua gradazione al punto di trasformarsi in una unica pennellata.
I colori del SUD sono un mondo a parte, un’assenza del nord che vive sbiadita, il punto di partenza di un filo che si dipana attraverso sensazioni nettissime, come possono esserlo in particolare certi odori. Forti e decisi, a volte pungenti e che a volte oltrepassano i confini del lecito che possono anche diventare sgraziati e allora, arriva in soccorso di nuovo la curiosità che suggerisce come mitigare gli eccessi, con l’orecchio teso di chi accorda uno strumento, scorgendo finalmente una nota perfetta. Ecco allora aprirsi un’altra dimensione, una combinazione apparentemente impossibile e chi l’aveva prevista?
Parlavamo di colori. Nel mare di possibilità le carote possono diventare arancioni per faccende di politica, ma il pigmento, che è un composto organico, si è rivelato prezioso per l’organismo, ottimo antiossidante com’è e fonte essenziale di vitamina A. Ed era il colore di Guglielmo d’Orange, che nel 1568 portò i Paesi Bassi a combattere il dominio spagnolo ed è per questo – cibo e colore – che i contadini decisero di ibridare l’umile radice trasformandola in un omaggio. Abbiamo le prove partendo da un indizio suggestivo, testimoniato dal cambiamento cromatico dai quadri dei pittori fiamminghi del 1500 (Peter Aertsen e Nicolaes Maes) ai dipinti del 1600 le carote sono diventate arancioni. Quell’inconsapevole guizzo creativo ha portato con sé benefici per la salute da cui sappiamo trarre anche oggi vantaggio. E se siamo siamo riusciti a distinguerci anche con l’umile carota – in Sicilia con la novella di Ispica IGP e in Puglia con la Carota di Polignano chiamata anche Carota di San Vito – lo dobbiamo a quell’Italia che scende verso il mezzogiorno, verso il SUD. Dove la terra indica un destino e tiene stretta una vocazione, dove la risorsa naturale racconta con maggiore autenticità una storia antica che le trasformazioni sociali ed economiche non hanno ancora trovato modo di strapparne le radici che qui sono ancora ben salde.
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